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“Machine Head”, la consacrazione dei Deep Purple

Deep Purple, Machine Head

In alcuni articoli precedenti abbiamo tracciato la storia del percorso dei Deep Purple, una tra le più influenti band di hard rock britanniche.

Dall’esordio con “Shades Of”, ancora incerto sulla strada da percorrere tra tarda psichedelia, nascente progressive e rock duro, con una formazione ancora provvisoria, fino a “In Rock”, vero vademecum dell’hard rock anni ’70. A questi era seguito “Fireball”, il disco che raccoglieva la pesante eredità del grande successo di “In Rock”, e lo faceva mischiando le carte, proponendo accanto ad alcuni pezzi di matrice hard passaggi più sperimentali e delicati.

L’album – uscito nel 1971 – ottenne minor successo, pur mantenendosi su buoni numeri, e risentiva forse dell’eccessiva fretta di “battere il ferro finché era caldo”. La band era però in evidente stato di grazia, l’equilibrio della formazione più classica con Lord alle tastiere, Blackmore alla chitarra e Gillan alla voce, era pressoché perfetto e il nuovo, definitivo capolavoro era dietro l’angolo. In quello stesso anno, in autunno, i musicisti si riunirono a Montreaux, in Svizzera, per registrare il materiale che avrebbe dato vita a “Machine Head”, quello che per molti è il capolavoro della loro discografia.

Molto spesso a fare la storia sono coincidenze del tutto imprevedibili; per i Deep Purple il destino si compie il 4 dicembre del 1971, sul lago di Ginevra. Quella sera al Casinò di Montreaux, dove in quei giorni Lord e soci devono registrare il nuovo disco, sta suonando Frank Zappa con i Mothers of Invention, quando un incendio distrugge il locale. Potrebbe essere un disastro in molti sensi: per i presenti, che riescono però a mettersi in salvo, e per i Deep Purple che vedono andare in cenere lo studio di registrazione. E invece quell’evento darà vita alla loro canzone più celebre, quella “Smoke On The Water” che racconta l’avvenimento e il cui riff è ancora oggi croce e delizia di ogni chitarrista alle prime armi. (leggi l’articolo)

Come suona “Machine Head”

Machine Head” è dunque la quadratura del cerchio, un miracolo di equilibrio tra la durezza di “In Rock” e le istanze più sperimentali della band, un compendio della loro arte che fa somigliare la tracklist quasi a un “best of”, e ne decreta definitivamente l’entrata nell’Olimpo del rock. Ma vediamo pezzo per pezzo come suona “Machine Head”.

L’album si apre con “Highway Star”, uno dei futuri cavalli di battaglia e sicuramente uno dei pezzi più emblematici del canzoniere del complesso; l’apertura vede subito Ian Gillan prendersi la scena a colpi di falsetto, urla alla Little Richard e un canto che pare quasi un rabbioso rantolo. Il tema è ricorrente per la band, un’ode sfrenata alla strada e al mito della velocità. Il primo assolo è dell’organo di Jon Lord, ed è uno dei più celebri di tutta la discografia, in sostanziale equilibrio tra rock e musica classica, come tutta la carriera del tastierista; la parte di chitarra di Ritchie Blackmore è forse quella più iconica in assoluto, un prodigio di velocità e misura al tempo stesso, con omaggi a Bach che riescono a non suonare eccessivamente barocchi e che si amalgamano perfettamente col tipico suono della sua sei corde. L’aneddoto sulla nascita del pezzo è forse leggendario e un tantino improbabile, ma lo riportiamo perché significativo dell’ispirazione di quei giorni; pare che il gruppo si trovasse su un “tour bus” che doveva condurli a Portsmouth, quando un giornalista chiese come nascessero le loro canzoni. Per tutta risposta, Blackmore prese la chitarra e improvvisò un riff piuttosto semplice su cui Gillan iniziò a cantare; nel pomeriggio il pezzo era pronto e la sera stessa venne proposto in concerto.

Si prosegue con “Maybe I’m a Leo”, canzone un po’ sottovalutata e che fa parte del filone più attinente al blues dei Deep Purple; una corrente “carsica” che solo raramente emerge ma dimostra come la band sapesse farci anche col genere ispiratore del rock per eccellenza; il brano suona incredibilmente simile ad alcune cose del primo disco degli ZZ Top, una band che non potrebbe essere più lontana dai canoni dei nostri. Gli assoli sono piuttosto misurati, specie quello finale di Blackmore, una delle parti più genuinamente blues suonate da Ritchie in carriera, e la parte del “leone” – a tutti gli effetti, visto il testo – la fa stavolta la vocalità di Ian Gillan.

Pictures Of Home” è un altro brano che ingiustamente viene ricordato poco. Su un sostenuto tempo hard rock, quasi debitore ai Black Sabbath in qualche modo, si innestano le bellissime parti vocali di Gillan, a tratti quasi melodiche; il pezzo riporta un po’ ad “Hallelujah”, il primo brano registrato dalla formazione MK2 anni prima e uscito solo come singolo. L’evoluzione della canzone porta poi a mettere in risalto le incredibili qualità degli strumentisti, in cinque funambolici minuti in cui tutti danno fondo alle loro capacità e alle possibilità dei loro strumenti. Un vero tour de force che lascia quasi storditi.

Si tira un po’ il fiato con “Never Before”, uno dei brani più caratteristici del complesso. Pubblicato anche come singolo, il pezzo mischia atmosfere e generi, dall’hard al funk, con la voce di Gillan sempre grande protagonista e con un bridge che sembra quasi preso da un album dei Beatles, psichedelico e delicato e con Blackmore che cita la chitarra di George Harrison; ma è solo un attimo e la canzone riprende in tutto il suo vigore con gli assoli di chitarra e stavolta del piano elettrico.

Si chiude la prima facciata e la seconda si apre col pezzo che ha segnato l’intera vita artistica dei Deep Purple, “Smoke On The Water”. Impossibile dire qualcosa che non sia stato già detto – anche qui sul nostro sito – su questo brano di culto; ci limitiamo a dire che fu un successo che giunse inaspettato alla band, che non ci credeva troppo, al punto da averlo incluso quasi come riempitivo e a citare le parole di Roger Glover, titolare dell’intuizione di mettere in musica l’incendio di Montreaux: “Da fuori si vedevano le fiamme riflettersi sulle nuvole e il fumo avvolgeva il lago, perciò mi venne l’idea del titolo ‘Smoke on the water’, fumo sull’acqua.” Più semplice di così.

C’è ancora spazio per un paio di brani, a partire dalla lunga “Lazy”. Una mastodontica intro di quasi due minuti, con l’organo di Lord che corteggia il rock progressivo e prepara la scena alla chitarra di Blackmore; questi propone prima un riff ficcante e poi un assolo di una fluidità disarmante. Siamo di nuovo dalle parti del blues, sebbene ibridato come al solito con passaggi hard e classici. I continui inseguimenti tra tastiere e chitarra precedono la voce di Gillan, che si palesa dopo quattro minuti e mezzo con strofe blues sia nella struttura che nell’attitudine rilassata. Il cantante per una volta si cimenta con buoni risultati anche all’armonica, una vera rarità per la band, prima di riprendere a cantare su una base che si arrota su un boogie sempre più sostenuto. C’è ancora tempo per qualche assolo e il brano si chiude dopo oltre sette minuti.

Lazy” entrerà di diritto nella scaletta dei live, assieme ad altri tre brani di “Machine Head”: “Highway Star”, “Smoke On The Water” e la conclusiva “Space Truckin”.

Quest’ultimo brano è l’ennesimo cult di un disco che si chiude troppo presto: il falsetto di Gillan tocca qui le punte più elevate, gli assoli sono brevi e incisivi, compreso quello di Paice alla batteria. Si tratta in realtà solo dell’embrione di quello che il pezzo diverrà dal vivo, una cavalcata di venti minuti dove tutti i musicisti possono dar fondo al repertorio, come si può ascoltare nel leggendario “Made In Japan”.

Tirando le somme, molti ritengono “Machine Head” l’esito più elevato dei Deep Purple, il disco che segna l’apice e di cui – in seguito – sarà impossibile fare meglio, come per “Led Zeppelin IV”, per citare la loro band rivale. I fatti danno ragione a questa ipotesi, infatti dopo il successivo “Who Do We Think We Are”, decisamente in tono minore, gli equilibri salteranno; le nuove formazioni faranno ancora bene, ma sarà decisamente un’altra musica.

Noi personalmente non vogliamo scegliere, ma è certo che “In Rock” e “Machine Head” siano rimasti i momenti irripetibili di una discografia che dura tuttora e i testi sacri di tante generazioni di appassionati di hard rock.

— Onda Musicale

Tags: The Beatles, Led Zeppelin, Roger Glover, Smoke on the water, Machine Head, Deep Purple, Ian Gillan, Ritchie Blackmore, Frank Zappa
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