Musica

L’underground dei Velvet Underground

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La controcultura americana degli anni 60′, fenomeno di ribellione giovanile, si è espressa in vari filoni: il movimento hippy nasce in California e porta avanti una protesta pacifica, mentre il protopunk a Detroit è più politicizzato e ribelle. Diversa ancora la controcultura di New York, nata in ambienti colti di artisti influenzati dall’avant-garde.

Filo rosso che accomuna tutte queste forme di ribellione è il desiderio di oltrepassare i modelli del passato, proponendo soluzioni sociali e politiche alternative, nate tutte dalla sperimentazione.

Del movimento hippy (qui) come della scena musicale di Detroit abbiamo già ampiamente trattato (qui l’articolo sugli Stooges e qui sugli Mc5). Non ci resta che approfondire la scena controculturale di New York con la band di punta dei Velvet Underground.

Del resto come non trattare, noi della rubrica ‘underground’, di una band che ingloba tale termine direttamente nel suo nome? Tra le mille sfaccettature che il vocabolo incarna, quella dei Velvet Underground è sicuramente la più cupa, introspettiva e decisamente nichilista.

Queste qualità vengono impresse al gruppo dal loro cantante e chitarrista, nonché fondatore, Lewis ‘Lou’ Reed, mente e penna di gran parte del materiale della band. Reed aveva studiato letteratura inglese all’università a differenza di molti altri musicisti di quel periodo che nascono invece dalla strada e da lì portano avanti la loro protesta, e ciò determina una sfumatura diversa nelle scelte espressive dei Velvet Underground.

Membro di una famiglia ebrea di Brooklin, Reed era amante del rock&roll fin dall’adolescenza (nei tardi anni ’50, a 14 anni, era membro degli Shades, band che pubblica perfino un 45 giri!) ma è solo al college che si interessa di jazz, nella sua sfumatura avant-garde, e della poesia colta grazie al poeta e mentore Delmore Schwarz. Le due anime verranno in breve riunite in un unicoprogetto musicale, frutto di cultura universitaria ed esperienza “di strada”.

A vent’anni Reed abbandona gli studi e incomincia a lavorare come compositore presso la Pickwick Records di New York City, etichetta specializzata in edizioni economiche di pop music da vendere nei supermercati. Tra i suoi lavori di questo periodo si distingue il singolo The Ostrich registrato nel 1964 con la band da studio The Primitives, capeggiata dallo stesso Reed.

Il brano era sostanzialmente un pezzo da ballo, in stile garage, ma con degli accorgimenti molto avanti per l’epoca: la chitarra era volutamente stonata, la voce di Reed (con cori in falsetto nel sottofondo) già si distingueva per essere alle soglie del parlato mentre il testo vaneggiava di stendersi con la testa a terra perché venisse calpestata. Del resto era questo il ballo suggerito.

Inaspettatamente il singolo viene notato da un programma televisivo da ballo e i Primitives, invitati a presiedere, devono trasformarsi in una e vera e propria live band. Nuovi membri vengono reclutati e Reed li sceglie tra le amicizie dell’avanguardia underground di Manhattan.

Salgono a bordo dapprincipio il musicista John Cale, un Gallese negli Stati Uniti per completare un iter di studi musicali “seri”. Cale infatti aveva già studiato musica d’avanguardia a Londra, lavorato con compositori come John Cage e il padre del minimalismo LaMonte Young ed ora si stava perfezionando in musica classica con Leonard Bernstein.

A seguire lo scultore avant-garde Walter De Maria, alla batteria, e il filmaker sperimentale Tony Conrad, anche lui membro del Young’s Theater of Eternal Music di La Monte.

Tra tutti fu Cale a restare impressionato dalle soluzioni stilistiche e tecniche applicate da Reed al rock&roll visto che l’accordatura della chitarra su un’unica nota era proprio ciò che stavano sperimentando nell’ambiente più colto della musica avant-garde. Anch’egli affascinato dalle espressioni più grezze del rock, inizia con Reed un’intesa destinata a durare nel tempo.

I due avevano quindi in comune l’attrazione per generi molto distanti tra loro ed assieme iniziano a creare pezzi particolari che andranno poi a formare il repertorio dei primi Velvet Underground. Passato infatti il periodo di successo di Ostrich, Cale e Reed decidono di formare un gruppo musicale più serio che portasse avanti il tentativo di unire assieme rock e avant-garde. Un esperimento sonoro estremo anche per l’epoca, che fa di questi due strumentisti e della propria visione, l’insolita asse portante della band.

E’ così che nel 1965 Reed (chitarra e voce) e Cale (basso, organo e viola), affiatati più che mai, cercano nuovi compagni d’avventura e li trovano in Sterling Morrison (chitarrista già amico universitario di Reed, col quale aveva creato svariate band estemporanee) e nel batterista Angus MacLise (anch’egli della sfera di LaMonte). Nascono i Falling Spikes, nome primo per i Velvet Underground, alternato a volte a quello di Warlocks.

L’influenza di LaMonte Young sul gruppo fu per lo più l’uso di droni tipici della musica indiana, sottofondi esotici che li contraddistinguono specie nei live, mentre il nome definitivo della band fu suggerito dal vecchio amico Conrad che nel periodo stava leggendo un libro sul sadomasochismo intitolato proprio Velvet Underground. Il tutto ci fa capire il terreno fangoso sul quale il quartetto poggiava i piedi.

Come diversa è l’estrazione sociale e culturale di questa band rispetto al resto del panorama musicale del Paese, così lo è l’espressione da loro prodotta. Le sonorità sono lente e cupe e i testi parlano di malessere del vivere, di ansia claustrofobica, dell’alienazione urbana. Argomenti esistenziali incentrati sull’uomo e sui suoi disagi come sulle sue depravazioni, il tutto molto lontano dalle tematiche sociali, politiche e di ribellione tipiche dell’epoca.

I Velvet erano poeti urbani e della città parlavano, dello stato di alienazione che lì si può vivere, della profonda solitudine che vi si può sperimentare e del degrado della vita moderna. Deviazioni sessuali e tossicodipendenza la loro soluzione a tutti i mali, medicina a sua volta malata e compromessa.

Canzoni come “Heroin,” “I’m Waiting for the Man” o “Venus in Furs,” ne sono un inequivocabile esempio: descrivono lo squallore della vita, seppure in maniera poetica, mentre decadentismo, espressionismo, iper-realismo e minimalismo trovano in loro degno compendio.

Iniziarono col suonare in ambienti raffinati frequentati da gente di cultura, tipo alle prime di film sperimentali, fino ad ottenere un ingaggio fisso al Cafè Bizarre. Alle soglie del primo concerto pagato il batterista MacLise però si ritira, orripilato al pensiero che l’arte musicale possa venire retribuita col vile denaro. Ecco allora scegliere un sostituto in tutta fretta, incarnato in un’insolita figura femminile, Maureen ‘Moe’ Tucker, sorella di un amico di Morrison.

La band è al completo ora e la loro carriera musicale può ufficialmente iniziare. La loro musica sottile e perversa, cupa e malinconica, non aveva un appeal diretto con il grande pubblico, all’epoca, eppure non manca di affascinare il guru della pop-art Andy Warhol, fan e mentore che li allontana dagli ambienti fumosi dell’underground per inserirli nel proprio entourage. Si esibiscono negli spettacoli del loro benefattore e il primo film in cui compaiono è “Venus in Furs

Ma di Warhol e della sua Factory, dell’inserimento nella band dell’anima fredda teutonica incarnata da Nico, dei loro esperimenti discografici e dell’eredità indiscussa lasciata alle generazioni musicali successive, avremo modo di parlare più approfonditamente nel prossimo capitolo

— Onda Musicale

Tags: Velvet Underground/John Cale/Andy Warhol/Nico
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