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“Dire Straits”, il fulminante esordio della band

Il frontman dei Dire Straits Mark Knopfler

“Immagino il paradiso come un luogo dove la musica folk e la musica blues si incontrano”. La frase di Mark Knopfler chiarisce meglio di tanti trattati l’approccio alla chitarra del celebre leader dei Dire Straits, la band che prese il volo nell’ottobre del 1978 con la pubblicazione dell’omonimo disco.

Pare essere diventato ormai inevitabile – a proposito dei Dire Straits – sottolineare come in piena era punk riuscì nell’impresa di imporsi con una musica che era tutto l’opposto di Sex Pistols e soci; in realtà si tratta più di una forzatura, una scorciatoia per trovare contrapposizioni a tutti i costi. La musica dei Dire Straits era effettivamente l’antitesi del punk, quasi soffusa e sempre con una diffusa aura di dejà vu, sospesa com’era tra rock’n’roll, blues, folk e soprattutto country; d’altra parte è pur vero che il punk non era certo l’unico genere esistente all’epoca e, anzi, pur essendo il fenomeno di costume del momento, rimaneva comunque in una nicchia che faceva molto rumore ma non era quella frequentata da chi cercasse nella musica buone vibrazioni o semplice intrattenimento.

I Dire Straits nascono nel 1977 a Deptford, nella profonda provincia inglese, dall’unione dei fratelli Mark e David Knopfler con John Illsley, bassista, e Pick Withers, batterista. Mark ha già ventotto anni e una professione avviata – anzi due – come insegnante e giornalista; suona la chitarra da sempre ma timidezza e bassa autostima lo hanno sempre frenato nel proporsi.

Mancino di natura, impara a suonare la chitarra da destrorso e con un particolare stile fingerpicking di sua invenzione che farà scuola. Le sue influenze sono da ricercarsi più che nel blues tradizionale – come per quasi tutta la sua generazione, poco più giovane di quella di Eric Clapton – in quello strascicato e rilassato di J. J. Cale e nel country di Chet Atkins, suo nume tutelare.

I Dire Straits all’esordio

I quattro iniziano a esibirsi – senza grandi riscontri, per la verità – nei locali dei dintorni col nome di Cafè Racers; è Pick a coniare il loro geniale moniker Dire Straits, che in italiano suona pressappoco come “terribili ristrettezze”. Lo stile di Mark è peculiare, la sua voce sussurrata e solo a volte più roca e forzata lo fanno paragonare da alcuni a un “Bob Dylan intonato”; i testi sono crepuscolari e cinematografici, diversi sia dal disimpegno della musica commerciale che dalle provocazioni del punk. Alcuni demo incisi in modo quasi amatoriale finiscono – per sentire un parere competente – al disc jockey della stazione radio locale Charlie Gillett.

Il buon Charlie non si limita tuttavia ad ascoltare i brani, ma decide di trasmettere a loro insaputa il brano che più l’ha colpito; sono quei piccoli gesti che danno il via a rivoluzioni più o meno importanti. Il brano, infatti, è “Sultans Of Swing” e la radio viene bersagliata dalle telefonate che vogliono sapere chi canta quella canzone e, soprattutto, di chi sono i ricami chitarristici all’insegna di un virtuosismo misurato che pare non somigliare a nulla che si sia già sentito.

La parabola ha inizio e la band viene messa sotto contratto dalla Warner; il primo disco viene registrato nel febbraio del ’78 e pubblicato in ottobre. I brani sono essenzialmente quelli delle due cassette demo, registrati professionalmente ma sempre con la semplicità che li contraddistingueva. All’inizio l’accoglienza è fredda, ma solo in patria; in Europa il disco va forte, ma è solo questione di tempo e “Dire Straits” diventerà un sempreverde, una pietra di paragone per il rock che verrà e per le tante band da garage che si riuniscono a suonare per passione, proprio come i Sultans Of Swing del testo.

Il disco si apre con “Down To The Waterline”, un piccolo classico del canzoniere; l’apertura è affidata in solitaria alla magnifica chitarra di Mark, col suo tipico suono rotondo e squillante. Solo un po’ di eco e i suoi fraseggi che si stagliano enigmatici fino all’ingresso degli altri strumenti e del canto. In un suggestivo “call and response” che diventerà marchio di fabbrica, l’indiscusso leader declama con la sua voce strascicata ma sempre intonatissima ed espressiva, alternando lick sempre più veloci e sospesi tra country, blues e qualcosa che rimane sempre lì nell’aria, indecifrabile e affascinante. Si è spesso detto che i Dire Straits forse non avrebbero ottenuto nulla senza Mark Knopfler e che, al contrario, il leader sarebbe stato grande anche da solo, e noi non ce la sentiamo di smentire, anche se probabilmente senza quella particolare alchimia iniziale le cose non sarebbero andate allo stesso modo.

Water Of Love” introduce la seconda arma del repertorio di Mark, la chitarra resofonica o dobro; si tratta di una particolare chitarra acustica completamente di metallo, diffusa fin dagli anni ’30 tra i bluesmen ma che, complici anche alcune copertine, diventa iconica proprio grazie ai Dire Straits. Il suono pungente e metallico, ottenuto anche con l’uso della slide, diventa un altro marchio di fabbrica nei pezzi più acustici e dall’impronta decisamente country.

Setting Me Up” è la perfetta sintesi di rock’n’roll e country. Pare di sentire le scintillanti chitarre dei maestri Scotty Moore e Chet Atkins, con un ritornello che è puro country rock, anche se una parentela più immediata è con la celebre “Lay Down Sally” di Eric Clapton. E proprio “Slowhand”, quello più rilassato degli anni settanta, anch’esso debitore di più di un’ispirazione a J. J. Cale, è un altro sicuro riferimento di Knopfler.

Six Blade Knife” è invece il passaggio più soffuso e blueseggiante. Le atmosfere sono lente e rilassate, quasi dalle parti dell’oscuro Peter Green solista; la voce si fa più scura e la melodia sfuggente. Le parti di chitarra solista riescono anche qui nel miracolo di risultare equilibrate tra virtuosismo e basso profilo: un gioiellino pop blues che forse meriterebbe maggior considerazione in un repertorio ricco di capolavori più celebrati.

Southbound Again” replica le atmosfere di “Setting Me Up” e mette in risalto quello che forse è l’unico piccolo limite di un disco d’esordio che suona altrimenti fresco e riuscitissimo, ovvero una certa ripetitività in alcuni brani. Il suono della chitarra, anche qui in evidenza, riesce comunque a riscattare la situazione e rendere piacevole la canzone che all’epoca chiudeva la prima facciata del disco.

Il tempo di girare il vinile sul piatto e – con le difese dell’ascoltatore abbassate – i Dire Straits piazzano il colpo del KO, “Sultans Of Swing”. Trovare il capolavoro di una carriera all’esordio non è cosa da tutti e a volte risulta perfino dannoso; spesso l’opera risulta talmente preponderante rispetto alle altre da oscurarle. Per la band inglese non andrà così, tanti e talmente noti saranno altri successi da scongiurare il pericolo, eppure ancora oggi, dopo oltre quarant’anni, “Sultans Of Swing” rimane “la” canzone per eccellenza del complesso.

Tutto è perfetto, a partire dal testo che narra la sciagurata epopea dei “Sultans Of Swing”, gruppo che suona per locali senza alcun successo – all’epoca ci si può facilmente vedere un’autoironica citazione – ma con assoluta convinzione, passando da un genere all’altro e suonando gli strumenti che ci si può permettere, una sera dopo l’altra. La musica è frutto di un momento di grazia forse irripetibile; la melodia è orecchiabile al primo ascolto ma non stanca, l’assolo di chitarra – tra i più proverbiali di tutto il rock – è ricco di virtuosismi che però non suonano mai fini a sé stessi. Un capolavoro inarrivabile, c’è poco da ribattere.

I tre pezzi che chiudono il lavoro fanno quasi da camera di decompressione, permettono di riprendersi dallo shock di un pezzo iconico riproponendo – in modo sempre magistrale, sia chiaro – alcuni stilemi già trattati in precedenza. “Wild West End” è forse il più riuscito, retto da un arpeggio acustico e con la chitarra di Mark che sembra quasi duettare col canto. “Lions” è una bella ballata che chiude il disco nel momento giusto, appena nove canzoni con cui i Dire Straits portano a casa un instant classic da tramandare ai posteri.

Certo, i successi saranno ancora molti e il gruppo avrà una carriera talmente milionaria da oscurare quasi la storia della piccola band di periferia che solo per un caso del destino era arrivata al successo, eppure l’esordio rimane forse la prova più sincera ed efficace del complesso. Lo stile di Mark verrà negli anni inseguito da molti successori – vengono in mente Chris Rea in chiave più pop e Bruce Cockburn più folk, ma anche Clapton e Dylan faranno loro la sua lezione, arrivando a collaborare a più riprese – eppure proprio Knopfler da un certo punto in poi se ne smarcherà. Il Mark più maturo porterà infatti avanti una degnissima carriera solista più all’insegna del folk acustico che delle scorribande elettriche degli esordi, ma sempre sotto l’egida della qualità.

Mark Knopfler ha la straordinaria capacità di far emettere alla sua Schecter Custom Stratocaster dei suoni che paiono prodotti dagli angeli il sabato sera, quando sono esausti per il fatto di essere stati buoni tutta la settimana e sentono il bisogno di una birra forte.”

La frase è del grande Douglas Adams, l’autore della “Guida galattica per autostoppisti”, e forse è la descrizione migliore del suo stile.

Meglio ancora se accompagnata all’ascolto della fiammeggiante Stratocaster rossa di Mark.

— Onda Musicale

Tags: Eric Clapton, Mark Knopfler, John Illsley, Chet Atkins, Sultans of Swing, J.J. Cale, David Knopfler, Dire Straits
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