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Steve Hackett: l’ex chitarrista dei Genesis si racconta al nostro giornale in un’intervista esclusiva

Il chitarrista londinese Steve Hackett

Stephen Richard Hackett, detto Steve (Londra, 12 febbraio 1950), è un chitarrista e compositore britannico. È noto soprattutto per il suo lavoro nei Genesis, con cui ha inciso otto album dal 1971 al 1977.

Steve Hackett entra nella band al posto di Anthony Phillips nel 1971 e subito dopo i Genesis pubblicano uno dei loro più apprezzati dischi: Nursery Cryme. Dopo il suo abbandono Hackett inizia una grande carriera solista che lo porta a realizzare molti dischi di successo e importanti collaborazioni con grandi musicisti. Non senza una certa emozione lo abbiamo contattato e gli abbiamo proposto un’intervista alla quale lui ha risposto con grande disponibilità.

Il nostro giornale lo ha intervistato.

Ciao Steve, come stai?

Molto bene, grazie!

Sei uno degli autori più prolifici della scena rock, sia presente che passata. Dove trovi l’ispirazione, ma soprattutto il tempo, visto che per molti mesi all’anno sei impegnato in tour mondiali?

Trovo molta ispirazione nei luoghi che vado a visitare: alcune settimane fa ad esempio eravamo in Zimbabwe. Lì ho potuto vedere le fantastiche cascate Vittoria: è stato semplicemente strepitoso! Da quel momento ho cercato di suonare qualcosa sulla chitarra classica che ricordasse quel suono o che descrivesse ciò che ho visto. Ho quindi provato una pennata veloce ma ho notato che anche uno staccato veloce a volte riesce a creare la sensazione dell’acqua, in particolare quella scrosciante. Alcuni anni fa ricordo di aver ascoltato un famoso brano per chitarra e verso la fine del pezzo – racconta Steve Hackett prima che l’orchestra facesse il suo grande ingresso, c’è un momento in cui sembra che si aprano un migliaio di fontane. Quella fu per me una grande ispirazione: è bella l’idea che la chitarra possa suonare così, quasi come un’arpa. Suonava come se l’effetto del crescendo fosse illimitato, mai destinato a finire. In poche parole provo a descrivere la natura e penso che in tal senso la chitarra elettrica sia uno strumento un po’ più “delinquente”. Penso a me da giovane, ai giorni in cui volevo essere un musicista blues e suonare violentemente e velocemente, ma era ovviamente un diverso modo di pensare.

È molto interessante il modo in cui prendi i suoni della natura e cerchi di riprodurli sulla chitarra elettrica…

Si. Alle volte vorrei far suonare la chitarra come un violino o uno strumento ad ottone. Sicuramente in alcuni momenti può suonare come la voce umana e penso che questa sia una cosa che i chitarristi cerchino sempre, ovvero di imitare altri suoni. Alcune volte puoi creare qualcosa che suoni come un treno o come dei pattini. La chitarra elettrica è un po’ come i sintetizzatori, può creare tanti suoni diversi. Sono un grande fan delle tastiere, essendo cresciuto ascoltando, e lo faccio ancora adesso, tutto il repertorio di Bach: adoro il concerto italiano per clavicembalo. È spettacolare e alle volte difficile e complicato – ci spiega Steve Hackett ma penso che ci sia anche una semplicità di intenti lì. Amo l’esplorazione dell’armonia e penso anche che la musica sia senza tempo. Sono stato abbastanza fortunato a lavorare con un numero di persone che hanno sempre avuto grande rispetto per la musica classica. Penso che sia da lì che la musica progressive prenda la sua più grande ispirazione. E parlo di così tanti tastieristi: un ricordo dello scomparso Keith Emerson, che era anche un amico, Rick Wakeman che lo è ancora e ovviamente Tony Banks: abbiamo lavorato insieme e abbiamo condiviso l’amore per la musica classica. Ricordo cosa mi disse Tony, che avrebbe voluto poter fare ciò che i chitarristi fanno: il bending alla nota. Questo accadeva prima dell’era del pitch band e tutto il resto. In definitiva i tastieristi volevano suonare come i chitarristi e i chitarristi volevano suonare come i tastieristi.

È interessante poter cogliere molte influenze della musica classica in tanti brani simbolo del progressive rock. Per esempio nel repertorio degli Yes, oppure la parte del synth in “Wot Gorilla?” da “Wind and Wuthering”, si sentono molte ispirazioni classiche anche lì

Esatto, le puoi notare anche nei Procul Harum che hanno avuto una grande influenza sui Genesis. Certo la musica classica ne è parte, ma con i Genesis abbiamo lavorato potendo contare su tante ispirazioni al tempo di “Foxtrot”, quando John Lennon disse che eravamo i veri figli dei Beatles. Eravamo una delle band a cui John era interessato di più in quell’epoca, che era di per se stessa interessante. Difatti “Watcher of the Skies”, la prima canzone di“Foxtrot” che arrivò al primo posto in classifica in Italia, ha influenze di fantascienza, musica classica, critica sociale, humor…ascoltandola puoi ridere e piangere allo stesso tempo. Penso che “Foxtrot” sia durato nel tempo perché ci sono tante storie che accompagnano ogni canzone; stessa cosa con “Selling England By The Pound”, che penso rappresenti il momento d’oro dei Genesis. Ritengo che questi siano i due album più forti se consideri il totale. Non penso che ci sia nessun brano che possa risultare debole, di riempimento o banale. È musica, ma non è esattamente pop-music: è un qualcosa a sé stante. È in parte jazz, in parte classica, in parte pop, in parte rock, in parte “stile” big band. E queste sono tutte le influenze che la band ha condiviso insieme.”

Il 16 febbraio esce il tuo nuovo album “The Circus and the Nightwhale“, un concept album, il trentesimo da solista. Hai recentemente dichiarato che “finalmente hai detto cose che volevi dire da molto tempo”. Puoi dirci di più?

Si, certo. Il brano di apertura, “People Of The Smoke”, è il mio tentativo di descrivere la Londra del dopoguerra. Sono cresciuto nel momento in cui era fortemente inquinata, densamente abitata, con molte zone bombardate e così via… Stavano pian piano ricostruendo Londra, doveva superare i postumi della guerra, ricordo che giocavamo sulle macerie invece che nei parchi giochi. Ma Londra iniziava ad essere ricostruita e l’Europa iniziava a riprendersi. Sono cresciuto di fronte alla Battersea Power Station, che è stata resa famosa nel rock ‘n roll molti anni dopo dai Pink Floyd, con il maiale volante nell’album “Animals”. Da bambino era proprio quella la vista dalla mia stanza ed era anche il più grande edificio in Europa: produceva luce, calore e corrente per mezza Londra. Era così potente, oltre ad essere il più grande edificio in Europa al tempo. Proprio questo era ciò che vedevo fuori la mia finestra. Ovviamente – prosegue Steve Hackettera tutto pesantemente inquinato in quanto c’erano quattro grandi ciminiere e colonne di fumo che rilasciavano sostanze nell’atmosfera. Potete immaginare come crescevo con tanti raffreddori, tosse e dolori al torace e così via. C’era quindi un prezzo da pagare nel dover crescere nel bel mezzo del fumo, che era diventato anche il soprannome di Londra. Ci si riferiva a Londra come “il fumo”: penso che la gente abbia iniziato a darle questo soprannome nel 1800, durante la rivoluzione industriale. Tutti facevano riferimento a Londra come al fumo. Ed è così che “People Of The Smoke” fa riferimento ai londinesi nel 1950: ho usato degli estratti radio del 1950 (l’anno in cui sono nato) semplicemente per creare la scena del tipo di mondo in cui sono nato e il modo in cui le cose sembravano e suonavano. C’è il pianto di un bambino, c’è un motore a vapore, c’è un’orchestra d’archi…La BBC le ha dichiaratamente fatte suonare old-fashioned, così che l’ascoltatore possa avere il senso di come abbiano viaggiato i tempi dal 1950. Non mi sembra che siano passati 70 anni, anzi nella mia mente potevano benissimo essere 200 anni fa, per il grande cambiamento nella tecnologia e il modo in cui l’ecologia è vista oggi come un pensiero sempre più crescente. I cambiamenti nel mondo sono stati enormi, ma sfortunatamente il mondo è adesso ad un punto in cui è pronto ad esplodere, quindi fo***uto di nuovo. Gli inglesi ora stanno parlando di esercito e di reintrodurre nuovamente la leva obbligatoria, cose che oggi come oggi sarebbero impensabili. È troppo costoso e i ragazzi non lo vogliono più fare: era il mondo di ieri e oggi vogliamo cercare di evitarlo.

Proprio “People Of The Smoke” e anche “Wherever You Are”, i due pezzi che abbiamo ascoltato come anteprima sulle piattaforme, sono cantati da te in prima persona. E’ una scelta legata a quei brani in particolare o essendo un album autobiografico hai sentito l’esigenza di interpretarli?

Si, sono autobiografici. C’è anche l’idea di raccontarmi in terza persona per rendere l’album ancora più individuale, perché ovviamente penso di non essere più quello che ero quando sono nato. Ma penso che la vita mi abbia cambiato tante volte durante il corso del tempo, per questo motivo volevo condividere queste esperienze sia nella forma di un libro autobiografico sia nella sua versione audio, con canzoni che descrivono gli eventi. E ovviamente tutti i miei grandi cambiamenti, sia professionali che personali.

Quale dei brani rappresenta meglio il musicista che sei oggi?

Considerando che copre più generi musicali e tanti stili diversi, se dovessi parlare della parte di chitarra rock di cui vado più fiero, penso che quello sia “Get Me Out”, con uno stile esecutivo molto blues, ma con un po’ di rock. Però poi c’è anche “White Dove”, una suonata classica alla fine dell’album, che copre un aspetto molto diverso di cosa la chitarra sia capace di fare. In generale, non penso che ci sia solo una traccia che dica tutto. Deve essere idealmente assimilato ascoltando l’album nel complesso.

Quest’estate hai fatto un tour molto particolare in Sud America con i Genetics. Come è nata questa collaborazione? Hai in programma altri concerti con loro in futuro?

I Genetics persero il loro cantante principale, purtroppo morì molto tristemente in un incidente sugli sci. Per aiutarli acconsentii a suonare un concerto con loro e non ricordo se il primo show che facemmo fu a Buenos Aires in Argentina o a Lima in Perù, ma abbiamo suonato comunque in entrambi questi posti e sono tornato a suonare in un nuovo tour con loro. Non sono la mia band usuale, ma abbiamo fatto insieme tutto “Seconds Out” ed è stato molto interessante. Non escludo che ci potranno essere altri concerti con loro, ma nel frattempo sto girando altri posti con la mia band. Sono entrambe ottime band, ma non sono le uniche con cui ho suonato: a parte la mia band e i Genetics ho lavorato anche con i Djabe che sono ungheresi e che fanno soprattutto improvvisazione e fusion. Insieme a loro la situazione è più jazz in un certo senso.

Inca Terra” è un pezzo sognante che trasporta chi ascolta nei paesaggi incantati dell’impero Inca. Ma quelle splendide terre hanno di contraltare in molti casi degrado e povertà. Sei da sempre sensibile alle problematiche sociali: nel tuo tour hai avuto contatti con tali popolazioni in difficoltà? Se si puoi descriverci la tua esperienza e le tue sensazioni?

Da quando ho iniziato a lavorare in Brasile (in un certo momento della mia vita viaggiavo spesso in Brasile) e avendo molti amici lì, ho registrato lì all’inizio degli anni ’90. Ho avuto persone che hanno partecipato all’album che vivevano in condizioni molto povere, come ad esempio nelle favelas e nelle baraccopoli. Ma quello che ho scoperto è che alcune volte questi percussionisti avevano solo un tamburo, e provavano a trarre tutti i suoni possibili da quell’unico tamburo. Sono sicuro che sognassero di avere una batteria rock completa, ma come si dice “l’avversità è la madre dell’inventiva”. E per quanto riguarda quelle persone…si vedeva come volessero imparare a trarre ogni singolo suono immaginabile da un solo tamburo. Quindi il mio modo di essere vicino alle qualità interiori alla persona in disagioeconomico era di lavorare con queste persone e pagarle nella loro valuta, ovviamente. L’altra situazione in cui sono stato coinvolto è quando sono arrivato ad immaginare che il rock potesse esser utile contro il rimpatrio per la povera gente in Vietnam, in quanto ero preoccupato per questa nazione ecologicamente rovinata dalla guerra. Quindi organizzai l’iniziativa con il maggior numero di persone del business musicale che potessi coinvolgere: ci ho lavorato per più di un anno. Ci potrebbero essere altre cose in futuro, ma in generale sono d’accordo sul fatto che le problematiche sociali siano molto importanti. Siamo in occidente, siamo molto privilegiati e mi piace pensare che in futuro ci sia più coscienza sociale sulle cose che faccio. Ovviamente ho lavorato con musicisti provenienti da tutto il mondo, a prescindere che fossero ricchi o poveri o da cosa possedessero ma ho anche lavorato con Peter Gabriel quando avemmo una breve reunion dei Genesis nel 1982. Il WOMAD festival era costato molto e Peter Gabriel doveva rientrare nei costi. I Genesis tornarono insieme per l’occasione per provare ad aiutare gli altri musicisti. Volai per 3000 miglia pur di parteciparvi e quindi sono ben conscio della mia posizione privilegiata.

Under A Mediterranean Sky” è un album completamente acustico, il secondo dopo “Tribute” del 2008. È nato quando hai dovuto interrompere il tuo tour in Nord America a causa della pandemia, trovandoti a casa senza le tue chitarre elettriche. Quali sono state le suggestioni che ti hanno portato a scrivere quei pezzi meravigliosi? Parlaci de “La Casa Del Fauno” e di Pompei, dove ti aspettiamo per la cittadinanza onoraria che stiamo organizzando per questo autunno

Certo, grazie mille per tutto questo! Innanzitutto, amo l’Italia e Pompei, e tutto ciò che rappresenta: la tragedia della fine di Pompei, in qualche modo, resta come un esempio di tutte le cose straordinarie del mondo antico che l’Italia ha come patrimonio, preservando non solo la sua storia ma anche lo spirito di tutte quelle cose che rendono il vostro paese magnifico. Gran parte del resto del mondo è così privo di patrimonio: di certo non troverete le antiche costruzioni romane o i reperti etruschi altrove, sarebbe molto difficile. È stata mia moglie Jo a suggerire di fare qualcosa basato su tutti i Paesi del Mediterraneo e quindi comporre un brano che potesse apparire come peculiare di ognuno di essi (ad esempio un brano di Scarlatti per l’Italia). Abbiamo quindi provato a descrivere la Francia con un brano che suonasse come francese, la Spagna con un brano che suonasse come spagnolo e così via. È stata una sua idea e mi ha dato il focus. È stata una narrativa silenziosa a guidare il tutto, allo stesso modo della narrativa che guida il nuovo album “The Circus And The Nightwhale”. È stato un qualcosa suggerito da mia moglie, che è una persona molto creativa: è stata anche una giovane musicista proveniente da una famiglia di musicisti a sua volta, e ora lavora come scrittrice e film-maker. Abbiamo unito le forze e molte volte ho fatto ciò che lei mi ha suggerito. In genere vado via per sei mesi pensando di poter comporre una canzone basata sullo stile italiano o russo, fino a che non mi viene l’idea, ad esempio, di mischiare gli stili di Tchaikovsky e Stravinsky. Una volta ottenuto tutto ciò qualcosa inizia ad accadere, ma la qualità cinematografica delle idee che le vengono, è come quando l’orchestra chiude un brano così come l’ha arrangiato.

Ed è sempre bello quando scrivi canzone con altre persone con cui stai bene. 

Si. Penso che sia giusto avere delle conversazioni musicali. Alle volte quando hai un obiettivo in mente non hai allo stesso tempo tutti i pezzi della canzone, ma arriva qualcuno che suggerisce qualcosa e il tutto diventa una grande sfida quando è commissionato da altre persone. Altre volte invece sei tu ad auto-commissionarti e pensi, ad esempio, “voglio fare qualcosa di jazz e portare in vita New Orleans”. Disegni queste immagini e provi a descriverle in qualche modo.

Il tuo prossimo progetto live è basato su “The Lamb lies down on Brodway“, un album complesso, incentrato su un racconto ideato e scritto da Peter Gabriel. Quale sarà il tuo approccio nella riproposizione dei pezzi?

Riguardo The Lamb voglio sottolineare che noi come Genesis abbiamo scritto la musica e anche Pete l’ha fatto, ma ha voluto scrivere lui tutti i testi e li ha fatti diventare una storia. Quindi è un lavoro di gruppo e per questo motivo è accreditato ai Genesis come band (le cinque persone che eravamo all’epoca). Quando celebrerò quell’album farò solo alcune canzoni, non tutto il lavoro, non voglio sempre creare cose d’archivio. Ovviamente voglio suonare le vecchie canzoni preferite, ma preferisco sempre creare un “best of”. Farò ciò che considero essere il meglio di “The Lamb” e anche il meglio di altre cose, tra cui i lavori recenti. È importante per me suonare i miei lavori solisti come anche quelli dei Genesis. Penso che sia giusto per me fare così, come ad esempio ha fatto anche Paul McCartney: per anni non ha toccato il materiale dei Beatles, dopodiché ha iniziato a farlo ed è diventato interessante celebrare tutta la sua carriera. Ora ad un suo concerto ascolti tutto il meglio da “Live and Let Die” a “Eleonor Rigby” e altro ancora.

Voglio chiederti adesso qualcosa riguardo una delle più belle canzoni del tuo repertorio solista, che è “Shadow Of The Hierophant”. La versione studio del 1975 vede la partecipazione della voce di Sally Oldfield, mentre ora è cantata live con la tua band da tua cognata Amanda Lehmann. Entrambe danno il loro personalissimo e bellissimo contributo alla canzone, tuttavia con due approcci totalmente differenti. Tu come vedi questi diversi contributi?

All’epoca Sally Oldfield era molto giovane e aveva una voce molto alta, così scrissi la canzone in una tonalità che fosse più adatta a lei; ma quando volli farlo con Amanda, pensammo che sarebbe stato meglio abbassare il pezzo di un tono, quindi ora è leggermente più bassa. E poi ovviamente c’è l’effetto di tutti coloro che suonano la melodia, con un drumming che l’ha celebrata degnamente ma che ha anche dato la possibilità ai batteristi di fare un qualcosa di spettacolare sul finale: e così hai un vero e proprio assolo di batteria che va avanti come una tempesta. Allo stesso tempo hai il pedale del basso e i power chord che fanno tremare le fondamenta, le tastiere che vanno al massimo e l’effetto del crescendo che comincia dal glockenspiel. Ovviamente nella registrazione non hai quelle ampie dinamiche, quindi per averne la massima espressione deve essere cantata live. Tuttavia è diventato uno dei lavori live preferiti, perché è influenzata dalla musica classica ma con anche degli aspetti della batteria rock. È un ibrido, copre più generi e stili differenti. C’è anche l’idea dell’antica Grecia, in modo tale da farla suonare come fosse una tragedia greca, per il modo in cui progredisce. C’era qualcosa che mia moglie disse circa il fatto che il crescendo finale assomigliasse ai canti Orestes dell’antica Grecia. Quando mia nonna l’ascoltò, ovviamente non riuscì a darne una descrizione artistica, ma disse che suonava come una processione, come il papa. Possiamo dire che il gerofante e il papa siano la stessa cosa, ma ovviamente il primo è pagano e il secondo è cattolico.” 

Grazie Steve per il tuo tempo, ti aspettiamo quest’autunno in Italia.

“Grazie a voi per quest’intervista.

(Un ringraziamento speciale a Raffaella Improta, Pietro Montesarchio e Simone Marino per la collaborazione all’intervista)

— Onda Musicale

Tags: Pink Floyd, John Lennon, Animals, The Beatles, Genesis, Peter Gabriel, The Lamb Lies Down on Broadway, Procol Harum
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